Ljiljana Banjanin
Verità storica e verità letteraria sull’ olocausto: A. Tišma e D. Albahari
Il rapporto tra la letteratura e la storia rappresenta una delle questioni centrali della letteratura serba moderna, nella quale il tema della guerra come “prodotto” della storia e suo movente occupa un posto di rilievo, al punto da poter affermare che esiste in qualità di cronotopo prevalente. A causa della singolare esperienza e degli effetti devastanti che produce, la guerra - e in particolare ci riferiamo qui alla Seconda Guerra mondiale, - ha fornito del materiale “privilegiato” e autentico alle elaborazioni letterarie che vanno dalla tematizzazione schematica e semplificata del realismo socialista, spesso inteso dogmaticamente e ideologicamente, fino a una radicale sperimentazione delle tecniche letterarie di carattere postmoderno. Su questo tema esiste nella letteratura serba un corpus molto vasto e diversificato (Mihajlo Lalić, Dobrica Ćosić, Antonije Isaković, Branko Ćopić, Meša Selimović ecc), sottoposto anche a numerose revisioni e valutazioni critiche. Ad esso si collega un filone “parallelo”, concentrato intorno a scrittori quali, ad esempio, Danilo Kiš, Magda Simin, Judita Šalgo, Filip David e molti altri, che hanno realizzato diversi modelli di ricostruzione letteraria dell’Olocausto, evitando manipolazioni della storia, mediante l’impiego di un approccio indiretto e prettamente letterario. L’Olocausto come simbolo estremo della tematizzazione della guerra nelle letterature europee nella seconda metà del XX secolo, ha superato fasi diverse che vanno dalla schematizzazione e canonizzazione dei testi, al consumismo e alla industrializzazione dell’orrore, per giungere a una rilettura dei testi e al loro studio analitico attraverso nuove chiavi interpretative. Tutto questo non è tuttavia contemplato nella produzione letteraria serba, perché quella che possiamo definire come l’autentica letteratura sull’Olocausto è sfuggita alle manipolazioni della storia con tutte le conseguenze negative che questo processo comporta. [1] La nota affermazione di Theodor W. Adorno, secondo la quale dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile scrivere poesia, si pone come un monito morale che ha prodotto nella letteratura serba alcuni romanzi di notevole spessore e valore letterario, tra i quali figurano anche Il libro di Blam (1972) e Goetz e Meyer (1998) che qui presentiamo. I loro autori Aleksandar Tišma (1924-2003) e David Albahari (1948), appartengono a due generazioni letterarie e a due impostazioni poetiche diverse, uniti però da un destino biografico familiare e letterario simile e segnati da una particolare individualità creativa con la quale hanno affrontato il tema dell’Olocausto. In questi due romanzi con la storia composta di dati, cifre, fatti riconducibili alla realtà del periodo da un lato, e dall’altro, la fiction letteraria, che pone domande sul luogo che l’uomo occupa nella storia, come vittima ma anche come carnefice, sulla natura umana e sull’identità, viene superata la dicotomia tra l’approccio storico e quello letterario nella tematizzazione dell’Olocausto.
Aleksandar Tišma è uno scrittore sostanzialmente realista, appartenente a quel tipo di realismo che non si concede alle ideologie dominanti del periodo in cui l’autore scriveva e pubblicava, segnato dalle proprie coordinate narrative stabili e immutate nel tempo. [2] È entrato nella letteratura come narratore già formato e maturo dopo varie esperienze lavorative (è stato giornalista, redattore, traduttore), mantenendo di sé un’immagine di scrittore - intellettuale dotato di una ferrea disciplina e di uno stile raffinato, seppur apparentemente freddo e distaccato nella costruzione della fabula narrativa. [3] Forse è questo il motivo per cui è rimasto fuori dal “circo” letterario anche dopo aver ottenuto diversi riconoscimenti tra i quali il prestigioso premio letterario della critica NIN per il romanzo L’uso dell’uomo nel 1977 oppure quello per la narrativa, intitolato a Andrić nel 1979. [4] Tišma non è stato una vittima o un testimone diretto degli avvenimenti storici che diventano il tema intorno al quale si concentrano i suoi romanzi, ma dalla storia è stato spinto a cercare delle risposte sulla propria identità, sul proprio io che fino a Il libro di Blam erano incerti e ambigui. Ebreo a metà e per metà serbo dichiarato, lacerato dai sensi di colpa per un presunto tradimento dell'ebraismo, in seguito al primo viaggio del dopoguerra nell'Europa centrale, in Polonia, Austria e in Ungheria e dopo una visita ai campi di concentramento, [5] egli annota nel suo diario esplicitamente, e per la prima volta, di sentirsi ebreo : „Ja sam Jevrej, čovek bez zemlje [...]“ (Tišma 2001, 424; 12.XI 1961), [6] e: „Ja bih mogao da kažem, kao Peter Weiss, da je moje mesto, jedino Aušvic. Onamo, zaista, čeznem - zato skupljam snimke iz logora, sa mučilišta: kao fotografije predaka“ (Tišma 2001, 480; 8.VI 1965). [7] Il libro di Blam rappresenta il frutto e la testimonianza di questo cambiamento, uno schieramento esplicito e definitivo, percepito dall'autore come l'immersione in un mondo - quello dell'ebraismo, - pieno di incertezze: „Blam predstavlja malo otiskivanje iz sigurnosti u neizvesniji ili bar za mene problematičniji tematski krug: jevrejstvo“ (Tišma 2001, 535; 8. IV 1971). [8] Così attraverso e tramite la sua „ritrovata“ identità, Tišma in questo romanzo dalla struttura apparentemente tradizionale, ma estremamente complessa, affronta la storia, e cioè lo sterminio di millequattrocento abitanti di Novi Sad (ebrei e serbi) compiuto dai fascisti ungheresi in soli tre giorni, dal 21 al 23 gennaio 1942. La figura centrale è quella di Miroslav Blam, testimone e vittima del tutto casuale scampata al rastrellamento, quindi appartenente a un mondo scomparso, distrutto dalla violenza degli eventi bellici. Per questo, la sua vita è presentata come un mosaico narrativo su due livelli: uno è quello del presente, parallelo alla narrazione in cui Blam, personalità complicata e contradditoria, esiste fisicamente, da osservatore passivo della vita che scorre lungo traiettorie conosciute, cercando di nascondersi pur esponendosi alla vista di tutti, e di diventare invisibile, quasi un nulla, trincerato e ritirato nell'ombra: [9]
Blam trascorre le sue mattinate seduto all'Intercontinental. Seduto come un tronco, come un sasso, come un oggetto dimenticato – il fossile di un pezzo di storia finita. E altro non è, essendo stato gettato là dal vento di un clima scomparso, il clima pungente e minaccioso dell'occupazione, mitigato per lui, pur ebreo, dall'essere convertito e sposato a una cristiana, e per questo risparmiato dallo sterminio (Tišma 2000: 45).
Il senso di isolamento e di spaesamento rispetto alla vita quotidiana della famiglia e della città nella quale è nato, cresciuto, in cui ha frequentato il liceo e gli amici di gioventù assorbono Blam, portandolo a rifugiarsi in un mondo parallelo, rappresentato dal passato e dai ricordi che costantemente e con tenacia sono pronti a riemergere e diventare parte del presente. Sono i ricordi dei suoi avi ebrei partiti da profughi nel 1812 dall'Alsazia, dei genitori Bianca e Vilim Blam e della vita familiare nella casa in piazza Vojvoda Šupljikac, della vita nella città nel periodo antecedente la guerra con le botteghe dei ricchi commercianti ebrei nella via Jervrejska, delle feste e dei balli con le prime esperienze amorose o degli incontri nella sinagoga e delle molte storie piccole e grandi, una parte della quotidianità vissuta. A questo strato di ricordi personali legati al passato si sovrappongono i ricordi legati agli orrori della guerra che hanno coinvolto Blam e che egli rivive facendo i conti con la propria esistenza resa inutile dalla morte dei genitori, vilmente traditi da un vicino ungherese, della sorella Ester liceale e comunista, dei compagni di liceo, degli amici e dei conoscenti. L'incapacità o la non volontà di Blam di accettare la propria realtà svuotata di senso mina e spinge ai limiti estremi la sua mente che confonde la realtà con l'immaginazione, il vissuto con il sognato, il giorno con la notte, „dando vita a un irrazionale senso di incertezza, di possibile sorpresa, di rimozione dell'esistente“ (Tišma 2000: 145). Il risultato è un'autentica sofferenza composta da un „groviglio“ di tormenti, di perdita di equilibrio nella paura di smarrire il suo mondo distrutto nella guerra.
Parallelamente a questa fiction letteraria composta nella migliore tradizione realistica, con molte descrizioni dettagliate e minuziose dei luoghi, dei personaggi ma anche delle motivazioni psicologiche delle loro azioni, l'autore presenta una cronaca documentata che fa parte della struttura romanzesca, inserita nel capitolo ottavo, dove pone il problema della verità storica. Si tratta del volume Zločini okupatora u Vojvodini, 1941-1944 (I crimini dell'occupante in Vojvodina, 1941-1944) e del quotidiano „Naše novine“(„Il nostro giornale“), che in tempo di guerra con il benestare degli ungheresi veniva pubblicato a Novi Sad. Il libro è stato scritto successivamente, nel 1946, in base ai documenti d'archivio, alle dichiarazioni dei testimoni sopravvissuti, alle confessioni dei colpevoli arrestati e contiene un capitolo sugli avvenimenti di Novi Sad. I suoi dati sono riportati nel romanzo con precisione e con molti esempi che corredano il testo:
[...] vi vengono descritti a posteriori i reati commessi sulla popolazione civile dall'entrata in città delle truppe ungheresi, l'11 aprile 1941, alla loro ritirata, il 22 ottobre 1944. Nelle sue pagine è possibile seguire l'evoluzione che portò il disegno dalle intenzioni dell'evasore alla loro realizzazione: vi si citano le direttive del Comando supremo e del Servizio di controspionaggio sulla necessità di intimidire gli abitanti di origine slava ed ebraica, di reprimere le attività comuniste [...], nonché di arrestare, internare, mandare al lavoro coatto, pestare e ammazzare [...] (Tišma 2000: 96).
Il quotidiano invece è contemporaneo agli eventi e abbraccia lo stesso periodo: il primo numero riporta la data del 16 maggio 1941, l'ultimo quella del 6 settembre 1944, e dalle sue pagine emerge un quadro diverso. Numerosi sono gli articoli e le notizie di una quotidianità normale, fatta di lutti, di incidenti ma anche di gioie; continui sono i comunicati dal fronte, gli ordini del comando tedesco, o i resoconti della vita politica ungherese. Nelle sue numerose rubriche, tuttavia, non vi è traccia dei terribili avvenimenti che hanno sconvolto la città intera,
come se [...] non ci fossero stati più di mille cadaveri gelati per le strade della città, come se la neve bianca non fosse diventata rossa di sangue, come se i muri delle case non fossero stati schizzati di cervella fuoriuscite da teste spaccate, come se decine di migliaia di case non fossero state attraversate da bisbigli di orrore (Tišma 2000: 98).
Il paradosso che pone in rilievo l'autore è evidente: il documento storico da un lato, e il quotidiano dall'altro, appartengono entrambi al mondo passato, conosciuto e vissuto di Blam, ma le due immagini, i quadri della realtà proposti sono completamente diversi, adirittura opposti e alla domanda quale dei due è vero Tišma in veste di narratore risponde:
[…] Entrambi, si capisce, ovvero nessuno dei due. Creati da due opposti punti di vista – quello dell’accusa e quello della difesa, del definitivo e del temporaneo, dell’essenziale e del superficiale, della rivelazione e della dissimulazione, della storia e del quotidiano -, sono come due disegni dello stesso luogo: il primo riporta montagne e fiumi, il secondo località e strade. Solo sovrapponendoli si ottiene un’immagine approssimativamente esatta del paesaggio (Tišma 2000: 98-99).
È evidente che la zona della sovrapposizione delle due immagini, di quella storica e di quella reale è rappresentata dal romanzo su Blam o in un senso più vasto, dalla letteratura intesa come storia narrata che apre molte possibili vie di interpretazione dei temi contenuti in quest’opera intrisa di pessimismo e di scetticismo.
La ricerca della verità nascosta nelle pieghe della storia e della realtà smarrita occupano un posto centrale anche nel romanzo Goetz e Meyer (1998) che rappresenta una svolta nel lungo percorso letterario e artistico di David Albahari. [10] Alla sua prosa degli anni Settanta/Ottanta, definita come la metafiction sperimentale, una ricerca auto-ironica di potenzialità linguistiche da rendere attuali nel testo poetico con una forte impronta autobiografica, [11] mancava però il contesto storico. Negli anni Novanta, anni delle guerre jugoslave, nel romanzo L’esca che potrebbe essere definito come un autentico romanzo di famiglia di carattere autobiografico, attraverso una narrazione lineare e cronologica in cui la realtà storica è intrecciata con la storia narrata, l’autore introduce il tema dello sterminio degli ebrei che diventa il nucleo introno al quale si forma il Goetz e Meyer. Questo nucleo è concretizzato ed esplicitamente presentato nella forma di appunto dell’autore stesso (Autorova beleška) una sorta di appendice al romanzo che indica le fonti autentiche, storiche (materiale di archivio, lemmi enciclopedici, feuilleton giornalistici), ma anche monografie e ricerche di studiosi jugoslavi o stranieri consultati per la stesura del testo. [12]
È possibile isolare dal contesto letterario i singoli fatti storici, riferiti allo sterminio degli ebrei a Belgrado, presentati nel romanzo, ricostruendo con molta precisione il milieu storico. Ne sono parte le allusioni alla politica tedesca riguardo alla “soluzione finale” della questione degli ebrei in Jugoslavia (la registrazione della popolazione e dei beni materiali, la fucilazione di uomini adulti, la deportazione nei “centri di raccolta” di famiglie intere); numerose sono le date citate nel romanzo (16 aprile/8 dicembre 1941; 6 febbraio/30 maggio/14 giugno/13 luglio 1942), i rapporti, i manifesti di autorità tedesche, i telegrammi, i numeri. Vi sono contenute molte informazioni su quello che nei documenti ufficiali prima veniva definito come Judenlager Semlin, per diventare poi il Campo di Accoglienza di Zemun (Anhaltenlager Zemun): in realtà, l’edificio della prima Fiera internazionale di Belgrado del 1937, i cui padiglioni, durante i primi anni di guerra 1941/42, rispetto alla loro originaria destinazione si trasformano in un luogo di morte. Con uno stile tipico dei linguaggi funzionali, è descritta l’organizzazione deumanizzata, secondo le ferree regole imposte dai tedeschi, della vita nel campo di ebrei che speravano di essere trasferiti altrove, in Romania o in Ucraina, e che invece finivano stipati a gruppi, su un camion di marca Saurer, “miracolo” della tecnica tedesca. Nel suo cassone, chiusi ermeticamente, venivano uccisi dal monossido di carbonio e seppelliti in una località (Jajinci) a soli quindici chilometri di distanza dalla Fiera. Questi fatti permettono una ricostruzione fedele degli avvenimenti passati, ma secondo Albahari, la storia, essendo “impersonale” e “arida” non può esistere sul piano individuale: “[…] si limita alla ricerca dei minimi e dei massimi comuni multipli, come se tutti gli uomini fossero uguali e tutti i destini umani fossero identici” (Albahari 2006: 26), “[…] non ha tempo per i sentimenti, […] per il tradimento e il dolore[…]” (Albahari 2006: 27). Intesa così, viene seguita da distanza e quasi senza un coinvolgimento emotivo, con molte osservazioni ironiche, talvolta sarcastiche e grottesche:
No, questa non è storia, ma una catastrofe di dimensioni cosmiche, in cui ogni individuo rappresenta un cosmo a parte. Novemila e cinquecento cosmi passano da uno stato solido a uno gassoso, e questo non è mera metafora, soprattutto a proposito di quelle cinquemila anime che conobbero l’interno del camion di Goetz oppure Meyer (Albahari 2006: 27).
La trama, esposta in un unico macro-passaggio, un periodo privo di suddivisione in capitoli e paragrafi, un monologo interiore senza interlocutori o interruzioni né dialoghi, è paragonabile a un labirinto lineare per la forza del flusso che cattura il lettore in una specie di “trappola”[13] dell’io-narrante, un professore di lingua e letteratura serbo-croata in un liceo belgradese. Questo cinquantenne di origini ebraiche, quasi maniacale nella dedizione al suo lavoro con i giovani, informato, creativo e solitario, asociale e senza contatti con il mondo circostante, deciso a mettere ordine nella propria vita, incomincia a disegnare l’albero genealogico della propria famiglia, accorgendosi subito che mancano troppi nomi. La ricerca del passato familiare è motivata dal bisogno di svelare troppi silenzi legati a nomi e a persone, e trovare la continuità dell’esistenza storica che determina anche la sua identità singola. Ma di questo passato non ci sono testimoni sopravvissuti, il taglio è netto - a differenza da L’esca, dov’è la madre a trasmettere i ricordi, - la memoria è interrotta. Il narratore, per poter capire l’accaduto, assume il ruolo dello storico, dello scrittore e riempie la storia di fiction letteraria. Così dà vita ai volti realmente esistiti nel passato che diventano attori della sua storia e agiscono in un mondo parallelo, spostato. Klara, Flora, Matilda, Estera, Bukica, Sara, Mara, Lenka Rašela, Rifka, Zlata, David, Isak, Daniel, Jakov, Moric, Leon, Samuilo, Ruben, Haim o molti altri, condotti dalla capacità immaginativa del narratore, vivono e muoiono, mentre egli stesso, identificandosi con loro, diventa un loro riflesso e un soggetto moltiplicato: “Mi immergevo in vite altrui come se fossero la mia, e difatti lo erano, solo che la mia vita non lo sapeva.” (Albahari 2006: 22).
Su questo cammino egli arriva a confrontarsi con il lato oscuro del male, la sua assurdità rappresentata dai protagonisti paralleli del romanzo che gli danno il titolo, con i quali esso inizia e finisce, Goetz e Meyer appunto. Onnipresenti, su tutti i livelli della storia reale, ma anche della fiction letteraria, essi rappresentano un unicum, una coppia fissa. Sono intercambiabili e inseparabili, uniti anche dalle congiunzioni “e/oppure” che sottolineano la loro unione, separandoli soltanto formalmente: Goetz e Meyer/Meyer e Goetz, Goetz oppure Meyer/Meyer oppure Goetz. Essi fanno parte della storia e come soldati tedeschi inviati in missione speciale, alla guida del camion trasformato in camera a gas, appartengono al mondo concreto. L’io narrante li colloca nel contesto storico e in quello personale: “Fra parentesi, Goetz si chiamava Wilhelm, e Meyer era Erwin (Albahari 2006: 33); “[…] è facile immaginare che fossero di statura alta […]. […] È molto più semplice, naturalmente, servirsi di stereotipi. Capelli biondi, pelle chiara, guance pallide e occhi d’acciaio […]” (Albahari 2006: 3). I loro nomi si trovano citati “per la prima volta in un telegramma dell’SS-Obergruppenführer Heinrich Müller, comandante della Gestapo a Berlino, inviato a metà marzo 1942 al capo della polizia tedesca di Belgrado […]” (Albahari 2006: 13), “Erano giovanotti sani, forti e temprati, come tutti i membri delle SS,[…]” (Albahari 2006: 43). Le loro vite sono esistenze banali, immaginabili come simili a molte altre di quel tempo. In tal modo Goetz e Meyer diventano trasversali sul piano narrativo, una tangibile espressione del male; l’identificazione del professore con loro diventa impossibile: dato che “non si trattasse di piccoli ingranaggi di un enorme meccanismo, ignari dello scopo del meccanismo stesso” ma che al contrario, erano “assolutamente al corrente del loro misterioso compito, […] nello stesso tempo messaggeri di morte e morte stessa” (Albahari 2006: 13). Carichi di significati, tra i quali anche lo stereotipo del soldato tedesco (il senso del dovere, la precisione, la puntualità, un atteggiamento “corretto” nei confronti dei detenuti, il rispetto delle regole ecc.) queste due figure sbilanciano l’equilibrio narrativo e quello psicologico dell’io narrante, diventando sempre più presenti, aggressive sul piano della fiction romanzesca, appropriandosi alla fine dello spazio ristretto della sua intimità: di giorno, di notte, travestiti da infermieri, da soldati o da uomini normali.
In questo modo, giocando con gli elementi della storia e della realtà e usando le strategie postmoderne, Albahari annuncia quello che nel romanzo non è svelato: la minaccia che la storia in varie sue forme, tiene nascosta, a partire dalle ideologie fino all’ultimo anello della catena del male che lo esegue realmente. Nel tessuto romanzesco questa minaccia è il fascismo che ha prodotto Goetz e Meyer, ma è facile intuire che la stessa minaccia al tempo della stesura del romanzo, corrisponde alle guerre jugoslave degli anni Novanta.
L’unico mezzo quindi che lo scrittore, in questo caso Albahari, ha a disposizione per mettere in guardia dalla catastrofe della guerra è la narrazione, il racconto, la trasformazione della storia in letteratura che infine salva dall’oblio i ricordi e i fatti del passato, opponendosi al male del presente. L’io narrante del romanzo, invece, essendo professore, introduce il tema sul romanzo di guerra da discutere con i suoi allievi, e pretende l’identificazione con i personaggi. Un passo successivo è l’uscita didattica, la scoperta delle vie, dei palazzi belgradesi in cui abitavano gli ebrei prima della guerra, la gita che prefissa come meta il campo della Fiera, diventato un palcoscenico sul quale avviene l’identificazione collettiva, in una sorta di terapia psicoanalitica. Vengono “riportati” alla vita gli ebrei deportati e uccisi, per effettuare una ricostruzione del delitto, in una lezione all’aperto che assomiglia a un vero e proprio sopralluogo, tuttavia da questo distinto, in quanto si pone come meta finale la scoperta della verità con un coinvolgimento emotivo. Nella fiction letteraria tale procedimento appare privilegiato perché dona “un’anima” all’accaduto.
Nella chiusura del romanzo è possibile osservare due prospettive: nella visione pessimistica di Albahari l’uomo è condizionato dalla storia nella quale non può scegliere il proprio destino, così come non lo potevano scegliere gli ebrei. All’io narrante invece, in quanto professore che utilizza la lingua e la letteratura come mezzo di comunicazione con i giovani, viene affidato il ruolo dell’educatore. Anche se sul limite della follia, egli è lucido nel credere che i suoi studenti maturando, diventeranno uomini adulti, razionali ma anche sensibili e capaci di scoprire la verità nascosta e a loro affida il compito di coltivarne la memoria:
[…] per dirla in modo pittoresco, avevo gettato il seme della memoria fra i miei allievi, […]. Infatti finché esiste la memoria, […] esiste la possibilità per quanto piccola, che qualcuno, una volta, da qualche parte, riconosca i veri volti di Goetz e Meyer, cosa che a me non è mai riuscita. E finché essi sono il riflesso di un vuoto, e quindi possono rappresentare una sostituzione per qualsiasi volto, Goetz e Meyer ritorneranno e ripeteranno l’assurdo della storia che, alla fine, diventa l’assurdo delle nostre vite (Albahari 2006: 120).
In entrambi i romanzi, il punto di partenza è la ri-scoperta dell’identità ebraica dalla quale nasce il confronto con la storia e i suoi avvenimenti documentati sul tema dello sterminio degli ebrei serbi a Novi Sad e nello Sajmište di Zemun. Anche se diversi, i due personaggi sono uniti da uno stesso destino: Blam è un ebreo sopravvissuto la cui vita rimane imprigionata nei ricordi, scissa tra “allora” e “ora”, condannata da egli stesso alla passività e all’invisibilità come un prezzo da pagare, senza possibilità di salvezza. Il professore ebreo del Goetz e Meyer invece, senza nome, in quanto simbolo di tutti gli ebrei, paragonato a “una pannocchia di granoturco sulla quale erano rimasti ancora solo alcuni chicchi malfermi” (Albahari 2006: 22), decide di scoprire da dove era “partito” e trasforma la propria esistenza in un‘ossessiva ricerca della verità sul passato familiare e degli ebrei belgradesi, sdoppiandosi in molti volti e con loro identificandosi. Da un lato la passività, un’apparente monotonia della narrazione di Tišma, dall’altro l’attivismo sfrenato del monologo continuo dell’io narrante di Albahari svelano attraverso il testo letterario la verità e le verità degli eventi storici.
BIBLIOGRAFIA:
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- ID. (2001): Dnevnik: 1942-2001, Sremski Karlovci-Novi Sad, Izdavačka knjižarnica Zorana Stojanovića.
- Cfr. su questo tema E. van ALPHEN, Caught by History: Holocaust Effects in Contemporary Art, Literary and Theory, Stanford, Stanford University Press, 1997, p. 10.
- Cfr. M. NEDIĆ, Narativni glas Aleksandra Tišme. Poetičke naznake, in AA.VV., Povratak miru Aleksandra Tišme. Zbornik radova, a cura di J. Delić, S. Koljević, I. Negrišorac, Novi Sad, Matica Srpska, 2005, p. 31.
- A. Tišma è nato a Horgoš, in Vojvodina, sul confine ungherese in una famiglia di padre serbo e madre ebrea ungherese, cresciuto quindi in un ambiente misto sul confine, dove si mescolavano le lingue, le religioni, le culture. Ha scritto il primo racconto nel 1943, ma pubblicato molti anni dopo le raccolte di poesie con una forte nota nostalgica Naseljeni svet (1956), Krčma (1961). Tra le sue opere citiamo le raccolte di racconti Krivice (1961), Nasilje (1965), Mrtvi ugao (1973), Povratak miru (1977), Škola bezbožništva (1978); i romanzi Za crnom devojkom (1969), Knjiga o Blamu (1972), Upotreba čoveka (1976), Begunci (1981), Vere i zavere (1983), Kapo (1987); prosa autobiografica Sečaj se večkrat na Vali (2000), Dnevnik 1942-2001 (2001); il diario di viaggi Drugde (1969) ecc. Accanto a Ivo Andrić, Miroslav Krleža e Danilo Kiš appartiene a scrittori jugoslavi più tradotti nelle lingue europee. Lionello Costantini ha tradotto il racconto Jalousie nel 1987 (in “L’umana avventura”, IV, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 100-104), e la raccolta Scuola di empietà nel 1988 presso la casa editrice romana e/o. Nello stesso anno esce la sua traduzione del romanzo L’uso dell’uomo ( Milano, Jaca Book, 1988), mentre nella traduzione di Branka Ničija viene pubblicato il volume Koje volimo con il titolo Pratiche d’amore (Milano, Garzanti, 1993). Il racconto di Tišma Živorad P. Maletić. Cronologia in traduzione di Alice Parmeggiani fa parte del volume Dizionario di un paese che scompare. Narrativa dalla ex-Jugoslavia, a cura di Nicole Janigro (Roma, Manifestolibri, 1994), mentre il Schneck e stato inserito dalla stessa curatrice in un’edizione scolastica di racconti pubblicata con il titolo Accade a Sarajevo ( Milano, Mondadori, 1996). Il libro di Blam /Knjiga o Blamu in traduzione di Ines Olivari Venier esce nel 2000 (Milano, Feltrinelli). Sulla ricezione delle opere di Tišma in Italia cfr. P. LAZAREVIĆ DI GIACOMO, Recepcija dela Alkesandra Tišme u Italiji, in Povratak miru Aleksandra Tišme, op. cit., pp. 260-274.
- Il premio NIN nel 1977 è stato assegnato per il romanzo L’uso dell’uomo, mentre il premio Ivo Andrić nel 1979 per il racconto Ibikina kuća, pubblicato nel “Letopis Matice Srpske” nel 1951.
- Il testo intitolato Meridijani Srednje Evrope. Poljska, Madjarska, Austrija (1961) è stato pubblicato prima nel LMS, quindi inserito nel volume dedicato ai viaggi Drugde (Beograd, Nolit, 1969).
- “Sono ebreo, uomo senza la terra /patria? […]” (Tišma 2001, 480, 12.XI 1961) (Tutte le traduzioni, tranne quelle dei romanzi sono nostre).
- “Potrei come dichiarare Peter Weiss, che il mio unico vero luogo è soltanto Auschwitz. Di esso sento davvero la nostalgia – perciò raccolgo immagini del campo, del luogo del martirio, come fossero fotografie degli avi” ( Ibid., 480; 8.VI 1965).
- “Blam rappresenta per me un leggero discostamento dalla sicurezza verso un nucleo tematico più incerto o almeno per me, più problematico: quello dell’ebraismo” (Ibid., 535, 8.IV 1971).
- Cfr. N. JANIGRO, La Casablanca serba fra ‘fiction’ e dramma, in AA.VV.,Cinque letterature oggi. Atti del Convegno internazionale, a cura di A. Cosentino, Udine, Forum, 2002, pp. 282-283.
- D. Albahari è nato a Peć, in una famiglia ebraica. Si è laureato in lingua
inglese a Belgrado dove ha incominciato a pubblicare le prime raccolte di
racconti a partire dal 1973 e romanzi Sudija Dimitrijević (1978),
Cink (1988), Kratka knjiga (1993), Snežni čovek
(1995), Mamac (1996), Mrak (1997), Gec i Majer (1998),
Svetski putnik (2001), Pijavice (2005, 2006), Marke (2006),
Ludvig (2007), Brat (2008), volumi di saggi ecc. Ha vinto numerosi
premi letterari (premio intitolato a Andrić per il racconto breve nel 1982,
premio Stanislav Vinaver 1993, Branko Ćopić 1994, NIN 1997. E’ stato il
primo vincitore del premio Balkanika nel 1997 per il miglior romanzo nei Balcani).
Dal 1997 vive in Canada.
E’ stato tradotto in quattordici lingue; tra cui in italiano, i racconti La morte di Ruben Rubenović/Opis smrti (trad. di S. Ferrari, Milano, Hefti, 1989), La Mantella/Pelerina in Dizionario di un paese che scompare, cit., (trad.di A. Parmeggiani); Il destino/Usud e Il cerchio/Krug in Casablanca serba, a cura di N. Janigro (trad. di S. Ferrari, A. Parmeggiani, I. Olivari Venier, Milano, Feltrinelli, 2002); i romanzi Il buio /Mrak (trad. di A. Fonseca, Lecce, Besa ed., 2003), Goetz e Meyer (trad. di A. Parmeggiani, Torino, Einaudi, 2006), L’esca /Mamac (trad.di A. Parmeggiani, Rovereto, Zandonai, 2008), Zink/Cink (trad. di A.Parmeggiani, Rovereto, Zandonai, 2009). - Cfr. M. PANTIĆ, David Albahari: priča, osporavanje smrti, in Aleksandrijski sindrom 4, Prosveta, Beograd, 2003, p. 136. Pantić ritiene che la storia e la biografia rappresentino l’essenza del procedimento narrativo di Albahari.
- Si tratta di Milan Koljanin, Nemački logor na beogradskom sajmištu 1941-1944 (Institut za savremenu istoriju, Begrad 1992) e Kristofer Brauning, Konačno rešenje u Srbiji – Judenlager na Sajmištu (Zbornik JIM, vol. 6, Beograd 1992) e Christopher R. Browning, The Final Solution in Serbia: The Semlin Judenlager, Jerusalim, Yad Vashem Studies, XV, 1980. Numerosi dati sul campo di Zemun sono riportati in P. PALAVESTRA, Jevrejski pisci u srpskoj književnosti, Beograd, IKUM, 1998, part. pp. 57-60. Cfr. in D. ALBAHARI, Gec i Majer, Beograd, Stubovi kulture, 1998, p. 183. Questa appendice non è stata riportata nella traduzione italiana del romanzo.
- Cfr. l’intervista/conversazione di Mihajlo Pantić con David Albahari, http://www.zemun.co.rs/albahari/kritike.htm . Sulla lingua e i suoi diversi registri che Albahari utilizza in questo romanzo cfr. S. KIRFEL, Jezik Davida Albaharija u romanu ‘Gec i Majer’, in AA.VV., Naučni sastanak slavista u Vukove dane. Književnost i stvarnost, a cura di Z. Bojović, 37/2, Beograd, Filološki fakultet/MSC, 2008, pp. 521-530. Cfr. anche Lj. BANJANIN, Stvarnost i “stvarnosti” u romanu ‘Gec i Majer’ Davida Albaharija, in AA.VV., Naučni sastanak slavista u Vukove dane, cit., pp. 487-494.
Датум последње измене: 2010-06-11 16:30:13